A proposito di conoscenza, di cui parlavamo nel blog della scorsa settimana, vorrei proporvi una riflessione sul canto XXVI dell’Inferno – meglio noto come il Canto di Ulisse – del quale quello stesso argomento rappresenta il tema centrale, elaborato attraverso la metafora del viaggio, una proiezione simbolica molto cara a Dante e, in generale, alla iconografia medievale. Tutta la vita terrena dell’uomo è un viaggio verso la vita vera, che è nell’al di là, la Divina Commedia è un viaggio, un metaforico percorso di redenzione e salvezza.
Siamo nell’ottavo cerchio dell’Inferno, quello detto Malebolge, dove sono puniti i Fraudolenti, ovvero coloro che, per un verso o per l’altro, hanno ingannato gli altri.
In particolare, nella ottava bolgia di questo cerchio, sono puniti i consiglieri fraudolenti, i quali hanno dispensato consigli ingannevoli per danneggiare gli altri. Essi appaiono come fiamme in movimento, tanto da ricordare a Dante un campo pieno di lucciole. Fra le fiamme che vagano per la bolgia, ve n’è una che attira la sua attenzione in quanto ha due lingue.
In essa sono puniti Ulisse e Diomede.
Sarà con Ulisse che a Dante verrà concesso di parlare. E Ulisse gli narrerà delle sue lunghe peripezie dopo la fine della guerra di Troia e del forte dissidio che, a un certo punto, si accende nel suo cuore fra il desiderio-dovere di tornare dalla moglie e dal figlio ma, anche, quello di proseguire il viaggio, spingersi oltre, navigare verso quegli estremi limiti del mondo che l’uomo non aveva mai varcato prima. Un contrasto intenso tra il richiamo degli affetti e il desiderio di conoscenza. Tuttavia:
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
La voglia di conoscere il mondo e di divenire esperto della natura umana ha il sopravvento persino sull’amore e sui suoi doveri familiari, a conferma di quanto potente, secondo Dante, sia l’impulso alla conoscenza negli esseri umani. Così, navigando con i pochissimi compagni rimasti, Ulisse giunge presso la Colonne d’Ercole, tra la Spagna e il Marocco, un luogo fortemente simbolico nelle categorie filosofiche del mondo antico e in particolare, del medioevo, perché rappresentava, geograficamente e metaforicamente, un finis terrae, ovvero la fine del mondo così come lo si conosceva, e dunque un limite estremo, che incuteva paura e rispetto perché investito di una sua inviolabile sacralità.
…venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
Ma né il rispetto verso il sacro né la paura dei rischi della sua sfida riescono a fermare Ulisse, il quale, però, per poter proseguire, deve persuadere i suoi compagni a seguirlo.
Nelle parole che Ulisse rivolge ai suoi marinai, il genio artistico di Dante tocca un dei vertici più alti della letteratura di tutti tempi, consegnandoci versi che diventano una sentenza, un archetipo, un paradigma della essenza più profonda che ci rende esseri umani:
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia114
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”.
O compagni di tanti pericoli, a quel poco di vita che ci resta non vogliate negare l’esperienza di scoprire ciò che, fino a questo momento, è rimasto inconoscibile. Gli uomini, nella loro essenza più profonda, sono stati creati non per vivere nell’ignoranza e nella paura dell’ignoto, ma per lasciarsi guidare dal coraggio e dalla voglia di scoprire.
Cinque mesi durerà il viaggio di Ulisse e si concluderà quando giungono in vista di un’alta montagna, prima di raggiungere la quale, però, un violento turbine, levatosi proprio da quella nuova terra, si abbatte sulla la nave, la fa girare tre volte su se stessa e poi la inabissa con tutti i suoi occupanti.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.
Che conclusione deludente, sotto alcuni aspetti, forse inattesa per il lettore, il quale non comprende come si concili questo drammatico epilogo con la l’esaltazione, oltre che valoriale, anche estetica e artistica del viaggio di Ulisse, il quale – come aveva detto Dante stesso nei versi precedenti – risponde a un bisogno profondo e incoercibile della natura umana, grazie al quale l’uomo ha potuto intraprendere il percorso dalla ferinità verso l’etica e verso la capacità di distinguere il bene dal male, giacché non può esistere virtute (nel senso latino di inclinazione al bene) senza canoscenza.
E dunque viene spontaneo chiedersi perché Dante crei davanti ai nostri occhi l’immagine di un eroe positivo, romantico, titanico, pronto, come Prometeo, a sfidare ogni divieto posto dagli dèi alla conoscenza umana, per poi punirlo, per precipitarlo con un folle volo negli abissi, proprio quando è a un passo dal saziare la sua curiosità, dallo scoprire il mistero per il quale ha messo a rischio la vita.
La risposta a questa contraddizione va ricercata nella formazione etico-religiosa di Dante, secondo la quale il viaggio verso la conoscenza è in sé sempre positivo – lui stesso ne propone uno al lettore, attraverso la sua Commedia – proprio perché risponde a un bisogno profondo della natura umana. Tutto sta, però, nel comprendere quale ne sia il fine, dove esso tenda.
Con la metafora della nave di Ulisse che si inabissa, Dante sembra volerci offrire un severo ammonimento: la possibilità di conoscere da parte dell’uomo non è infinita, non è illimitata. Essa deve fermarsi di fronte al Sacro, di fronte alle Colonne d’Ercole poste dalla divinità.
Ulisse, come Prometeo, sfidando quei limiti, pecca di arroganza e di superbia perché profana il sacro, di fronte al quale ogni essere umano deve accettare di fermarsi, pur senza conoscere altra spiegazione per questo divieto se non: perché è così. Com’altrui piacque, dice Ulisse, dove Altrui allude a Qualcuno o Qualcosa di più grande dell’uomo, cui egli deve sottomettersi.
E dunque, sì, per Dante esistono limiti alla conoscenza umana, esistono Colonne d’Ercole che non possono e non devono essere valicate, perché questo tipo di sfida potrebbe privare la conoscenza del suo valore positivo, guidarci verso il bene, e stimolare valori negativi, di superbia, di arroganza, di senso di onnipotenza, di sopraffazione verso i propri simili, spingendo l’essere umano non più verso un percorso di miglioramento e redenzione ma verso una selva oscura, dove si smarrisce la retta via e si precipita verso un folle volo.
In ultima analisi, la tematica di questo canto ripropone al lettore un quesito attualissimo soprattutto oggi, circa i limiti della ricerca scientifica: la scienza deve avvertire come un dovere etico e morale la necessità di fermarsi di fronte a ciò che potrebbe violare alcuni valori universalmente percepiti come sacri (si pensi ad esempio alla clonazione di altri esseri umani) o, al contrario, non deve porsi alcun limite, considerando la percezione della sacralità come una superstizione e un retaggio del passato? E ancora: la scienza deve porsi il problema etico del fine, dell’utilizzazione delle sue conquiste, o procedere nel suo cammino a prescindere da qualunque interrogativo di carattere etico?