Carla Maria Russo

Perchè l’Iliade è una grande opera pacifista

Iliade

Forse vi domanderete perché parlare dell’Iliade, un’opera così lontana nel tempo, e, per di più, definirla un’opera pacifista.

Ne parlo – per rispondere alla prima domanda – perché l’Iliade è uno dei più grandi e immortali patrimoni culturali dell’umanità. 

L’Iliade parla dell’Uomo, dei suoi sentimenti e delle intense passioni che bruciano il suo cuore.

È stupefacente quanto Omero conosca fondo l’animo umano e quanto abilmente sappia descriverlo, tanto da trasformare la sua ricca e avvincente opera in un palcoscenico in cui le emozioni si susseguono ininterrottamente: l’amore che annulla ogni ostacolo, l’orgoglio ferito, il furore, la vendetta, l’ambizione smodata e cieca, la smania di potere, la codardia, il coraggio – da quello sprezzante e quasi oltraggioso di Achille e quello profondamente umano di Ettore – il senso dell’onore e il disonore, la lealtà e il tradimento, l’onestà e la menzogna, il rispetto e l’oltraggio, la generosità e l’egoismo. E potrei continuare, tanto poliedrico e ricco di sfaccettature è il poema.

Ma perché definisco pacifista un’opera che è occupata per la gran parte da feroci battaglie? 

L’Iliade è un’opera pacifista perché le scene più salienti, le più toccanti e sublimi dal punto di vista artistico, contenutistico ed emotivo, quelle che più si imprimono nella mente del lettore, sono quelle in cui NON si combatte. 

Ne potrei citare diverse ma il discorso diventerebbe lunghissimo. Mi limito a due.

La prima – e forse la più emozionante dell’intera opera –  è l’incontro fra Ettore e Andromaca alle Porte Scee, nel VI libro. 

Ettore è appena stato informato che la battaglia fra troiani e greci si è riaccesa, la breve tregua è già terminata e, dunque, deve precipitarsi sul campo di battaglia per sostenere i soldati troiani con la sua spada e il suo esempio. Prima di tornare a combattere, però, vuole rivedere un istante sua moglie Andromaca e il piccolo Astianatte, per dare loro un abbraccio. Abbraccio che, per un guerriero che si accinge a combattere, potrebbe sempre essere l’ultimo.

Giunto nella sua dimora, però, non trova nessuno dei due ed è preso dalla disperazione. “Dove sono mia moglie e mio figlio?” chiede alle ancelle. “Ditemelo subito, vi prego” 

Quanto comprensibile l’ansia di Ettore, combattuto fra l’urgenza di raggiungere i suoi uomini ma, d’altro canto, la necessità, profonda e umanissima, di riabbracciare i suoi affetti più cari prima della battaglia, come se rivedere moglie e figlio possa aiutarlo a vincere la paura, a rammentargli che sta rischiando la vita non inutilmente, ma per ragioni cruciali: salvare la sua città, affinché non venga distrutta, salvare la donna che ama, affinché non finisca schiava nelle case del nemico, e salvare suo figlio, affinché non venga ucciso dai nemici: perché solo in nome di ragioni così alte la sua morte può avere un senso, un significato, uno scopo.

L’ansia di Ettore, la consapevolezza della sua precarietà, nel momento prima della battaglia, strugge il cuore del lettore.

La precarietà di chi combatte. 

Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” dice mirabilmente Ungaretti in Soldati. Un istante si è vivi, l’istante dopo, forse, non più. 

Al senso di precarietà di Ettore si accompagna lo strazio, altrettanto struggente, di Andromaca, la quale – spiegano le ancelle a Ettore – appena ha saputo che la battaglia è ripresa, con il piccolo Astianatte e la nutrice, è accorsa sulla torre di Ilio, alle Porte Scee, divorata dalla preoccupazione per la sorte del suo sposo.

Avuta l’informazione, Ettore si lancia fuori di casa

Ed Ettore si lanciò fuori di casa                                                     

facendo lo stesso cammino, giù per le vie ben lastricate.

Attraversando l’ampia città, giunse alle porte Scee,

da dove sarebbe riuscito nella pianura,

quando gli venne incontro di corsa la sposa preziosa…

Ella gli venne incontro e assieme veniva l’ancella

tenendo in braccio un bimbo piccolo e vispo:                                                                          

il figlio adorato di Ettore; sembrava una stella splendente.

Corre Ettore, verso Andromaca. 

Corre Andromaca, verso Ettore. 

E noi pare di vederli, questi due giovani ragazzi, innamorati e disperati, percepiamo lo strazio che tormenta il loro cuore, durante questo incontro che potrebbe essere l’ultimo. Si amano e vorrebbero vivere felici e in pace, con il loro bambino, immaginarsi un futuro e riempirlo di aspettative. Invece, entrambi, sono consapevoli della precarietà della loro condizione, della tragedia che incombe e che potrebbe travolgere le loro vite: un colpo di spada, una lancia scagliata verso il cielo, una freccia che devia dalla sua traiettoria per un soffio di vento, e nulla sarà più come prima: si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

Occorre munirsi di un bel fazzoletto per reggere la commozione di questo incontro.

Ogni lettrice sente di essere Andromaca, allorché, come qualunque donna innamorata, ricorre a ogni argomento, a ogni trappola, a ogni ricatto affettivo per persuadere il suo sposo a non recarsi in battaglia. 

Misero, il tuo coraggio ti ucciderà; non hai compassione

del figlio così piccino, di me sciagurata,

che sarò presto vedova? Presto gli Achei ti uccideranno,

balzandoti tutti addosso: sarebbe meglio per me                                                                     

scendere sotto terra, priva di te; perché nessun’altra

dolcezza, se tu soccombi al destino, avrò mai,

solo dolori! 

Ettore, tu sei per me padre, madre adorata

ed anche fratello; tu sei il mio sposo fiorente.                                                                          

Dunque, abbi pietà: rimani qui sulla torre,

non rendere orfano il figlio, vedova la sposa.

Disponi l’esercito nei pressi del fico selvatico, dove è più facile

salire dentro la città e superare le mura.

Ti prego, Ettore – supplica Andromaca – tu sei tutto quello che ho e che amo. Lascia combattere gli altri. Tu provvedi alla salvezza della città restando dentro le mura e rafforzandole nei punti in cui è più facile farle crollare.

Non esita, Andromaca, a ricattare affettivamente Ettore, pur di sottrarlo al combattimento, pur di salvarlo, costringendolo alla straziante scelta fra l’amore – lei e il bambino – e il dovere.

Ma, nel cuore di Ettore, i due valori non sono in alternativa, bensì coincidono perfettamente: non è importante il suo personale destino ma difendere e salvare le persone che più ama al mondo. E non può farlo, se non compiendo il suo dovere di uomo e di capo. Perché questo è lui: un capo, cui gli altri guardano per ispirarsi, per trovare l’esempio da seguire, per darsi quel coraggio che da soli forse non avrebbero. Lui non può tradire, non può fuggire, non può sottrarsi.

“Donna, anche io, penso a tutto questo; ma proverei vergogna

di fronte ai Troiani, alle Troiane dal lungo peplo,

se restassi come un vile lontano dalla guerra.

Non lo vuole il mio cuore, perché ho imparato ad esser forte,

sempre, e a combattere in mezzo ai primi fra i Troiani,                                                           445

procurando splendida gloria a mio padre e a me stesso.

Questo è il mio dovere, spiega Ettore ad Andromaca, perché sono un capo, ma soprattutto – come recitano i versi successivi – perché amo te e mio figlio: come potrei sopportare di saperti schiava di Menelao o di Agamennone, derisa da tutti, perché io mi sono sottratto al mio dovere di difenderti? Che amore ti dimostrerei, se mi ritirassi vigliaccamente e tentassi di salvare la mia vita, sacrificando la tua? 

Ma esiste un’altra forte motivazione in nome della quale Ettore – questo eroe così umano, così autentico, che non ha timore di mostrare i suoi sentimenti, incluso l’amore e la paura – non intende sottrarsi al proprio dovere: suo figlio.

Ancora una volta: quanto umana, delicata e toccante è la scena del padre che prende in braccio il figlioletto per baciarlo, e del bimbo che scoppia a piangere, spaventato dalle armi da guerra che il padre indossa. Ettore, allora, toglie l’elmo per farsi riconoscere, e di nuovo lo stringe a sé, consapevole che anche per quel figlio è suo dovere combattere, non solo per salvargli la vita, ma per consegnargli un nome onorato, di cui essere fiero, e l’esempio di un padre che non si è sottratto alle sue responsabilità di uomo, di cittadino e di capo. 

Poi,  innalzandolo verso il cielo, pronuncia le parole che si vorrebbero udire sulla bocca di ogni padre, ma che non sono così scontate come si potrebbe supporre se è vero – come è vero – che esistono padri capaci di uccidere i propri figli per motivi abietti, come, ad esempio, punire una moglie che li abbandona.

“Zeus, e voi altri Dei, fate che mio figlio cresca e diventi

anche lui, come me, un valoroso tra i Toiani,

altrettanto forte e capace di regnare su Ilio;

e che un giorno dica qualcuno: – È assai migliore del padre!

Che mio figlio sia assai migliore di me. Questa l’ambizione di un padre degno di tale nome, questa la sua preghiera: che suo figlio lo superi.

Ecco perché Ettore è un eroe vero. L’emblema, il paradigma dell’eroe, nel quale ognuno di noi può identificarsi, perché, come ciascuno di noi, preferirebbe non combattere, non rischiare di morire, dal momento che ha molto da perdere, e tuttavia è consapevole, in cuor suo, che esistono scelte che siamo chiamati a compiere, doveri cui siamo obbligati a sottostare, proprio per continuare a sentirci esseri umani degni di questo nome, per mantenere il rispetto di noi stessi, per consegnare ai nostri figli un’immagine di cui andare fieri. 

E ancora di più amiamo e ammiriamo Ettore nella scena del duello con Achille.

Può il racconto di un duello trasmettere un messaggio pacifista?

A mio avviso, per quanto possa sembrare paradossale, lo trasmette in modo molto intenso, perché mai come in questa occasione, il lettore percepisce l’orrore, la disumanità, l’insensatezza, l’ingiustizia profonda della guerra, dove, a essere travolti, sono sempre i più innocenti. E si indigna, di fronte a un simile sacrificio, a un insulto così abominevole al valore della vita.  

Ettore, nel momento in cui si trova di fronte Achille, è lucidamente consapevole che non potrà sconfiggerlo, perché il suo nemico possiede prerogative sulle quali lui, armato solo della sua umanità e del suo coraggio, non può contare. E così si prefigura nitidamente il destino che lo attende: la morte. 

La sua morte è lì, non potrà sfuggirle, sebbene lui ami la vita, la sua compagna e suo figlio. 

E quella prospettiva ineludibile lo spaventa. Uomo fra gli uomini, ha paura e fugge. 

La sua nobiltà come essere umano è racchiusa proprio in questa capacità di provare, di ammettere, di mostrare la paura. La sua grandezza come eroe consiste nel superarla, nel vincerla, nel trovare in se stesso la forza di affrontare il suo destino: perché è la scelta giusta da compiere, in nome delle persone che ama e dei valori in cui crede. 

Per questo suo umanissimo eroismo, Ettore, come scrive Foscolo negli ultimi versi del suo carme “Dei Sepolcri”, si guadagna per l’eternità la gloria e l’ammirazione di tutti coloro che possiedono le qualità per definirsi esseri umani:

“E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,

Ove fia santo e lagrimato il sangue

Per la patria versato, e finché il Sole

Risplenderà su le sciagure umane.”

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