Carla Maria Russo

L’arte e L’etica di Beppe Fenoglio

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E ora veniamo a Fenoglio.

Vi avviso subito che questa pillola sarà breve per due ragioni:

1)    Io sono di parte: Fenoglio è stato ed è un mio grandissimo amore letterario. Di lui mi sono innamorata intensamente da ragazza e tale resto ancora oggi: innamorata senza la minima riserva. Non tutti i miei amori letterari dell’età giovanile hanno superato il vaglio dell’età adulta, anzi, ci sono stati clamorosi ridimensionamenti. Fenoglio, no. Fenoglio è immenso e resiste impavido al passare del tempo.

2)    Ha scritto solo capolavori (ve l’ho detto che sono di parte). E sui capolavori, c’è poco da scrivere o commentare. Sono capolavori. Punto. Fine.

3)    Da un punto di vista metodologico, leggendo Fenoglio si comprende la differenza tra la cronaca e il romanzo. Due temi fondamentali sono presenti nei suoi libri: la Resistenza e il mondo contadino delle Langhe. Temi legati alla sua vita: il fascismo, la lotta partigiana, il legame con le Langhe. Ma lui li trasforma entrambi in alta letteratura perché sa elevare il personale, il contingente – il luogo, il tempo, l’esperienza personale – a simbolo universale della condizione umana, a epopea umana del vivere, a meditazione sulla violenza e sulla fatalità insite nella Vita, qualunque vita, a prescindere dal tempo, dal luogo e dal contesto personale. Violenza e fatalità possono anche assumere forme diverse ma restano sempre inevitabili e imprescindibili, perché connaturati alla vita stessa: la ferocia e la barbarie della guerra, narrata nei libri sulla Resistenza, non sono diverse, nella loro violenza e fatalità, dalla crudeltà e dalla disumanizzazione dei rapporti sociali che scaturiscono dalla miseria e dall’estrema povertà, narrate nei romanzi ambientati nelle Langhe quali il meraviglioso La Malora.

Di Beppe Fenoglio ho letto e amato tutto, a prescindere dal tema: Primavera di bellezza, Una questione privata, Il partigiano Johnny, I ventitrè giorni di Alba, La Malora, La paga del sabato

Tutto, insomma.

Ogni libro, una pietra miliare nel mio percorso letterario, una esperienza pesantissima, intensa, indimenticabile. Libri che hanno inciso nel mio cuore un segno indelebile, un solco.

Alta, altissima letteratura.

Un realismo così profondo, così assoluto, così impietoso, mi verrebbe da dire, espresso in uno stile così crudo, così scarno e scavato, così fermamente essenziale – entrambi frutto di una precisa scelta etica, a mio avviso – e tuttavia un risultato così poetico, così elevato da graffiarti l’anima.

Ho amato intensamente Fenoglio anche come uomo.  

Ho amato la sua fierezza, la sua schiena dritta, il suo rigore, il suo coraggio di dire la verità, di sfidare il feroce conformismo culturale del dopoguerra e degli anni Sessanta e Settanta, di non scendere mai a compromessi, pronto a pagare il prezzo della ferma coerenza etica e intellettuale con l’emarginazione dai salotti buoni (dei quali, per altro, a lui non interessava un bel nulla) e con critiche spesso feroci (ma ebbe anche grandi estimatori, almeno fra quelli che hanno giudicato le sue opere utilizzando solo le categorie letterarie e non quelle politiche)

Fenoglio è sempre stato schierato da una parte precisa: un fermo antifascista, senza dubbi e senza tentennamenti, figlio di socialisti, che condannò il fascismo non solo sul piano morale ma anche su quello intellettuale, partigiano combattente, che ha rischiato la vita per i valori nei quali credeva.

Ciò nonostante, mai ha rinunciato a descrivere la realtà nella sua crudezza, senza infingimenti né abbellimenti, in termini che alla cultura ufficiale dell’epoca non sarebbero potuti mai piacere. Negli anni del dopoguerra e anche successivamente, negli anni Sessanta e Settanta, parlare della resistenza rifiutando la retorica del trionfalismo a ogni costo significava candidarsi a essere non solo condannato ma crocifisso.

A me piaceva l’antifascismo di Fenoglio proprio perché leale e onesto sotto il profilo morale ed intellettuale, basato sull’antiretorica, a volte sull’ironia dissacrante. Basterebbe, come esempio, leggere questi pochi stralci dell’incipit de I Ventitré giorni di Alba, libro che io ho adorato sotto ogni profilo, letterario, umano, culturale, metodologico e anche etico perché mi ha aiutato a comprendere – come tutta la produzione di Fenoglio – il valore morale dell’onestà, della lealtà, della sincerità, specie per chi scrive:

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944. Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’erano per cento carnevali. Fece un’impressione senza pari quel partigiano semplice che passò rivestito dell’uniforme di gala di colonnello d’artiglieria con gli alamari neri e le bande gialle…e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia. La gente li leggeva come si leggono i numeri sulla schiena dei corridori ciclisti; lesse nomi romantici e formidabili che andavano da Rolando a Dinamite…”.

E questa è la critica sul libro pubblicata ne l’Unità di Milano del 29 ottobre 1952:

I ventitré giorni di Alba è e resta un brutto capitolo della letteratura sulla Resistenza…Fenoglio ci presenta degli strani partigiani, che stanno fra la caricatura e il picaresco, che combattono per avventura o addirittura per niente o per nessuno…Lo stile è volutamente letterario e falso, come il contenuto…E’ semplicemente un gioco di parole, e di brutte parole, quello di Fenoglio”

Per fortuna, i lettori non si lasciarono influenzare, così come alcuni fra i critici più attenti, che ne compresero la grandezza: oltre a de Robertis (che di lui scrisse: piuttosto che un neorealista, un realista, ma integrale, che ti dà, oltre la cosa, il sentimento, l’ombra della cosa), mi piace citare Anna Banti, sua grandissima estimatrice, e Pietro Citati ( che elogia la padronanza dello stile, il ritmo spoglio e quasi cinematografico)

Una volta lessi in una sua intervista che scrivere rappresentava per lui un’immensa fatica, che ogni parola gli costava uno sforzo estremo di ricerca.

Quando anche a me è capitato di arrancare sulle parole (mi è successo spesso, soprattutto mentre scrivevo L’acquaiola, un libro che mi è costato uno sforzo immane) mi consolavo pensando che la stessa difficoltà incontrava un grande come Fenoglio.

Per cui: silenzio e pedalare.

Foto: centrostudibeppefenoglio.it

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