Carla Maria Russo

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Protagonista del mio blog di oggi è una poesia che, fin dalla prima lettura ai tempi del liceo, ha toccato corde profondissime del mio cuore. 

L’autore è Marino Moretti, nato a Cesenatico nel 1885 e lì morto nel 1979, un poeta cosiddetto crepuscolare. In uno dei prossimi blog vi proporrò ancora delle riflessioni sul Decadentismo, questo vasto e poliedrico movimento d’arte e di pensiero, capace di tenere assieme espressioni artistiche diversissime, come un D’annunzio e un Marino Moretti. 

Leggete il testo e poi vi propongo qualche riflessione.

A CESENA

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,

ospite della mia sorella sposa,

sposa da sei, da sette mesi appena.

Batte la pioggia il grigio borgo, lava

la faccia della casa senza posa,

schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse

triste è per te la pioggia cittadina,

il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella

che guardi me con occhio che s’ostina

a dirmi bella la tua vita, bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,

o sposa, io vedo tuo marito, sento,

oggi, a chi dici mamma, a una signora;

so che quell’uomo è il suocero dabbene

che dopo il lauto pasto è sonnolento,

il babbo che ti vuole un po’ di bene.

« Mamma! » tu chiami, e le sorridi e vuoi

ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida,

che le parli dei miei vïaggi, poi…

poi quando siamo soli (oh come piove!)

mi dici rauca di non so che sfida

corsa tra voi; e dici, dici dove,

quando, come, perché; ripeti ancora

quando, come, perché; chiedi consiglio

con un sorriso non più tuo, di nuora.

Parli d’una cognata quasi avara

che viene spesso per casa col figlio

e non sai se temerla o averla cara;

parli del nonno ch’è quasi al tramonto,

il nonno ricco, del tuo Dino, e dici:

« Vedrai, vedrai se lo terrò di conto »;

parli della città, delle signore

che già conosci, di giorni felici,

di libertà, d’amor proprio, d’amore.

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,

sono a Cesena e mia sorella è qui

tutta d’un uomo ch’io conosco appena.

tra nuova gente, nuove cure, nuove

tristezze, e a me parla… così,

senza dolcezza, mentre piove o spiove:

« La mamma nostra t’avrà detto che…

E poi si vede, ora si vede, e come!

sì, sono incinta… Troppo presto, ahimè!

Sai che non voglio balia? che ho speranza

d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome…

Ho fortuna, è una buona gravidanza… »

Ancora parli, ancora parli, e guardi

le cose intorno. Piove. S’avvicina

l’ombra grigiastra. Suona l’ora. È tardi.

E l’anno scorso eri così bambina!

(Marino Moretti Da “Il giardino dei frutti”, 1916)

Perché questa poesia mi è così cara? Perché è così capace di straziarmi (non è una esagerazione), di gettarmi in una tristezza, che, pur essendo dolce e, a suo modo, piacevole perché suscitata dalla grande arte, mi infligge pur sempre un dolore?

Non sempre – anzi, a essere sinceri, quasi mai – è possibile spiegare i motivi per i quali un’espressione artistica, qualunque essa sia, riesce a suggestionarci in modo profondo. Si tratta di emozioni che affondano le loro radici nell’inconscio, in un vissuto del quale  raramente siamo consapevoli, frutto di sintesi analogiche e irrazionali.

Posso solo provare a fornire “qualche storta sillaba e secca”, per rubare una bella espressione a Montale.

Di questa poesia mi piace il contesto così intensamente poetico, espresso in una forma così  fortemente antiretorica, quasi che l’autore volesse proporci una anti-poesia, spogliare le parole da ogni affettazione, da ogni abbellimento letterario e presentarci la realtà nella sua assoluta crudezza, nel suo grigiore e nella lacerazione che essa suscita nel suo cuore. 

Moretti sembra rifiutare qualsiasi ricercatezza lirica, artifizio poetico o trasfigurazione della realtà, quasi volesse dirci: questo è lo spettacolo di tristezza e di squallore che mi sono trovato davanti quando ho rivisto mia sorella sposata da poco.

Appena sei, sette mesi sono trascorsi, ci svela il poeta, da quando mi pareva una bambina semplice e felice. Oggi resta ai miei occhi una bambina, ma infelice e costretta – dalla famiglia? dalla società? – a recitare una parte che non sente sua: quella della mogliettina soddisfatta e realizzata, quando invece è scontenta e spaurita, obbligata a caricarsi di responsabilità per le quali non è pronta, a elaborare calcoli meschini per difendersi, già disillusa nella speranza, forse coltivata prima delle nozze, di affrancarsi dal controllo dei genitori e invece intrappolata in una famiglia identica alla precedente, che non è più nemmeno la sua e dunque non la ama davvero, ostaggio di un meccanismo che la snatura, la avvilisce. 

E fa male, fa così male rendersi conto che, nei confronti di quella sorellina con la quale fino a pochi mesi prima esisteva un legame di complicità e affetto, ora sembra non esserci più alcuna affinità, solo una grande distanza, tanto lei è diversa, più cinica, più ipocrita, calata negli stereotipi sociali più scontati, assorbita in progetti di vita dai quali il fratello è escluso.

Forse il nodo alla gola che avverto ogni volta che leggo questo magnifico testo nasce in parte anche da un senso di rimpianto e di bonaria invidia: invidio a Marino Moretti la sua maestria nell’elevare ad arte purissima la banalità del quotidiano, mettendone in luce lo squallore, la mediocrità, il conformismo, così come invidio la sua capacità di evocare sentimenti molto laceranti – il dolore per la sorte della sorella, il senso fortissimo di perdita e di acuto rimpianto per un affetto che pare perso per sempre – mantenendo sempre un tono fortemente antiretorico, volutamente dimesso, essenziale, quasi scarno e, ciò nonostante, profondamente umano, dolente, che colpisce dritto al cuore del lettore.

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